Nove tesi su università-metropoli, composizione di classe e istituzioni del comune

Alberto De Nicola/Gigi Roggero

Nove tesi su università-metropoli, composizione di classe e istituzioni del comune


Alberto De Nicola and Gigi Roggero


1. Negli anni ’90 Bill Readings scriveva The University in Ruins. L’università statale è in rovina, l’università di massa è in rovina, l’università come luogo privilegiato della cultura nazionale è in rovina. Il concetto di cultura nazionale è in rovina. Noi leggiamo questo processo dal punto di vista del lavoro vivo e dei suoi movimenti. E la crisi dell’università è stata determinata innanzitutto dai movimenti. Dunque, non abbiamo nessuna nostalgia: questo è lo stile che ci accompagna. Infatti, l’aziendalizzazione e il sorgere di una global university non sono un’imposizione unilaterale. Sono interni ai rapporti sociali, cioè ai rapporti di forza. È inutile opporvisi nel nome del passato, perché abbiamo contribuito alla sua fine. Il problema è trasformare quei processi in un campo di conflitto. Non c’è per noi altra analisi se non la ricerca delle forme di resistenza e l’organizzazione delle linee di fuga.


2. Cos’è l’università oggi? Dal punto di vista capitalistico, è uno dei siti di gerarchizzazione della forza lavoro. I meccanismi di valorizzazione, dequalificazione e segmentazione della forza lavoro sono basati sulla produzione del sapere e sul suo controllo. Ma la produzione di sapere eccede le istituzioni formative: è diffusa nelle reti della cooperazione sociale. Reti ambivalenti, combinazioni conflittuali di autonomia e comando capitalistico, di lotte e cattura. Dunque, nella metropoli produttiva l’università diventa meno centrale nelle gerarchie capitalistiche, nondimeno è un sito di alta densità spazio-temporale della forza lavoro. E tuttavia, l’eccedenza rischia di diventare un puro elemento descrittivo. Per renderla dato politico, va organizzata in modo antagonista.


3. Come si produce il valore nell’università? Quando il sapere diventa un mezzo di produzione centrale, il problema per il capitale è la sua misura. ‘Capitalismo cognitivo’ (Vercellone 2006) significa anche cognitivizzazione della misura, cioè continua imposizione artificiale di unità di misura per ridurre il sapere vivo a sapere astratto (da copyright e brevetti ai crediti, dall’accumulazione di capitale sociale e umano alla ‘reference economy’ per ricercatori e studenti). Queste servono anche per misurare il valore delle singole istituzioni nella gerarchia delle università. Oggi, quindi, l’università-azienda funziona attraverso la rendita e la cattura dei processi di cooperazione. Da questo punto di vista, è paradigmatica del capitalismo contemporaneo.


4. L’università diventa metropoli, la metropoli diventa università. Prendiamo New York. I due principali agenti della gentrification, o studentification, sono la Columbia verso il West Harlem, la New York University verso il Lower East Side, zona storica dei movimenti e delle culture indipendenti. Ma se nel primo caso i confini del campus vengono allargati per comprendere una nuova area, nel caso della NYU i confini sembrano dissolversi in un rapporto mimetico con il tessuto metropolitano (Krause et al. 2008). Per il suo presidente Sexton e l’amministrazione corporate la sfida è ripensare lo sviluppo di New York a partire dall’università, guidando il passaggio dalla FIRE economy, basata su finanza, assicurazioni e proprietà immobiliare, alla ICE economy, cioè la messa a valore delle risorse intellettuali, culturali e formative. Attenzione, però: gentrification e studentification sono processi aperti, che trasformano la composizione sociale e aprono nuovi campi di conflitto. Il nostro problema è aggredirli su un punto avanzato, non arretrato. Il comune non è la difesa di qualcosa che già c’è, che speso assume i tratti della conservazione e della marginalità, o è la base di quel ‘capitalismo senza proprietà’ furbescamente teorizzato dal teorico liberale Benkler (2006). Il comune è la posta in palio di un rapporto di forza e dell’autorganizzazione della cooperazione sociale.


5. La gerarchizzazione dell’università non risponde alla dialettica tra inclusione ed esclusione. Così come nel rapporto tra università e metropoli, anche nel capitalismo globale non c’è più fuori. C’è solo un dentro segnato dai rapporti di sfruttamento. L’inclusione differenziale è la risposta ai movimenti che negli anni ’60 e ’70 hanno messo in crisi il governo dell’università. Negli Stati Uniti la risposta al Black power movement e alla costituzione dei Black Studies in quanto istituzioni autonome è stata un’articolazione di brutale repressione e inclusione differenziale, la cui cifra sono le strategie della Fondazione Ford (Rooks 2006). Dunque, la governance universitaria punta ad includere per controllare. Ma ciò significa anche che la governance è un processo continuamente affacciato sulla sua crisi e fondato sull’ingovernabilità del lavoro/sapere vivo. Non può organizzare la cooperazione a monte, ma la deve segmentare a valle producendo continuamente confini mobili, flessibili e cangianti.


6. Ma c’è sempre un’eccedenza rispetto all’inclusione: il lavoro/sapere vivo. I confini sono anche luoghi di resistenza e costruzione di linee di fuga. I precari e gli studenti – in quanto lavoratori e non forza lavoro in formazione – sono soggetti di frontiera. Non figure marginali e oppresse in quanto non completamente incluse, bensì potenziale eccezione ai dispositivi di gerarchizzazione. Quando le lotte dei ricercatori precari in Italia hanno rivendicato solo il riconoscimento del loro posto nella gerarchia della torre d’avorio, l’eccedenza si è politicamente chiusa. Da questo punto di vista, la “creative class” o i “lavoratori della conoscenza” non sono semplici categorie sociologiche, ma interamente politiche. Da un lato, legittimano l’inutilizzabile ‘concetto di divisione internazionale del lavoro’ e ‘il correlato spettro di lavoratori ad alto skill, medio skill e prive di skill’ (Mezzadra e Neilson 2007). La divisione tra lavoro intellettuale e manuale – così come la divisione per skill o di genere, la divisione tra lavoro produttivo e riproduttivo, o tra lavoro cognitivo e affettivo – non è infatti oggettiva, ma è un dispositivo di gerarchizzazione e controllo della forza lavoro. Dall’altro lato, gli attori della “creative class” rivendicano i loro diritti nel regime di inclusione differenziale, senza mettere in discussione il regime stesso.


7. A questo punto il problema è ripensare da capo il rapporto – per usare le categorie dell’operaismo – tra composizione tecnica e composizione politica (Wright 2002). Negli ultimi anni abbiamo chiamato moltitudine la relazione tra singolarità e produzione del comune. Ma l’articolazione delle differenze può darsi in senso disgiuntivo, nella misura in cui le singolarità vengono ricondotte all’identità della presunta appartenenza (etnica, sessuale, comunitaria, di gruppo sociale). È questa la composizione tecnica che sostiene i processi di inclusione differenziale. Qui il conflitto non esce dalla politica del riconoscimento della propria posizione nella gerarchia capitalistica. Possiamo allora ridefinire la composizione politica come un processo di dis-identificazione (Rancière 1995), di disarticolazione della composizione tecnica e di nuova composizione su una linea di forza che ha la sua definizione nella produzione del comune. La classe è la linea di forza su cui si compongono le differenze: è posta in palio di un processo di lotta, non sua oggettiva pre-condizione. Tra composizione tecnica e composizione politica, tra gerarchia capitalistica e differenziali di potenziale dei conflitti, c’è un rapporto di forza, ma nessuna omologia e simmetria. Abbiamo recentemente visto grandi esempi di mobilitazione di studenti, graduate students e precari in tutto il mondo: dalla Cina agli Stati Uniti, dalla Grecia all’Italia, dal Sudafrica alla Francia. La domanda è: come possiamo trasformare l’università in un luogo politico per la lotta e l’esodo, per la composizione politica delle differenze in uno spazio-tempo di classe? Questo è il punto. La metafora della edu-factory (www.edu-factory.org) non significa che l’università funzioni come la fabbrica. Piuttosto, indica l’urgenza di organizzarci come hanno fatto gli operai nella fabbrica, ma in una forma incommensurabilmente differente.


8. La diffusione dell’università anglofona come modello di global university avviene attraverso una continua traduzione: una ‘traduzione omolinguale’ (Sakai e Solomon 2007). Per esempio, in Italia il potere feudale è la particolare forma di traduzione del modello della corporate university. L’interruzione della traduzione capitalistica nell’università globale non significa il ritorno all’università nazionale, bensì pone il problema della traduzione, ‘eterolinguale’, dal punto di vista del lavoro/sapere vivo. La traduzione eterolinguale è interna al rapporto tra composizione tecnica e politica, tra singolarità, lotte e produzione del comune. Questa traduzione muove da una dimensione spazio-temporale autonoma che incrocia il piano capitalistico globale, ma non coincide mai con esso. Lo interrompe, lo rovescia, lo eccede continuamente.

 

9. Come dimorare tra le rovine senza nostalgia? Ossia: come organizzare la liberazione della potenza del lavoro/sapere vivo, rompendo i filtri e i dispositivi di controllo della governance universitaria e della rendita? Dobbiamo distinguere tra ghetto e autonomia. Il ghetto è completamente funzionale al regime di governance: è una forma di inclusione differenziale. L’autonomia è la liberazione della potenza collettiva. È lotta ed esodo, resistenza e linee di fuga, rifiuto del sapere dominante e produzione di sapere vivo antagonista. Dobbiamo abbandonare il punto di vista della maggioranza, ossia dell’universalismo e dell’esportazione di modelli universali. Il nostro è il punto di vista di minoranze agenti e centrali. Come il progetto edu-factory dimostra, in tutto il mondo ci sono esperienze di autoformazione, università autonome e organized networks (Rossiter 2006) che producono oppositional knowledges. Ora il problema è la loro organizzazione e traduzione nelle istituzioni del comune, ossia nelle forme costituenti – continuamente aperte alla loro sovversione, non universalistiche ma basate su singolarità irriducibili – del rapporto tra rottura dei processi di cattura e produzione di norme comuni, come condizione di espressione della potenza del lavoro/sapere vivo e per l’esercizio del comando collettivo all’interno della cooperazione sociale.



References:


Benkler, Y. (2006), The Wealth of Networks: How Social Production Transforms Markets and Freedom, New Haven: Yale University Press.

Krause, M., Nolan, M., Palm, M., Ross, A. (2008), The University Against Itself. The NYU Strike and the Future of the Academic Workplace, Philadelphia: Temple University Press.

Mezzadra, S., Neilson, B. (2007), Border as Method or the Multiplication of Labor, available at http://www.edu-factory.org/index.php?option=com_content&task=view&id=83&Itemid=41

Rancière, J. (1995), Le Mésentente: Politique et philosophie, Paris: Galilée.

Readings, B. (1996), The University in Ruins, Cambridge – London: Harvard University Press.

Rooks, N. M. (2006), White Money – Black Power. The Surprising History of African American Studies and the Crisis of Race in Higher Education, Boston: Beacon Press.

Rossiter, N. (2006), Organized Networks: Media Theory, Creative Labour, New Institutions, Rotterdam: NAi Publishers.

Sakai, N., Solomon, J. (2007), Translation, Biopolitics, Colonial Difference, available at http://www.edu-factory.org/index.php?option=com_content&task=view&id=45&Itemid=33difference

Vercellone, C. (ed.) (2006), Capitalismo cognitivo. Conoscenza e finanza nell’epoca postfordista, Roma: Manifestolibri.

Wright, S. (2002), Storming Heaven: Class Composition and Struggle in Italian Autonomist Marxism, London: Pluto Press.


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