Non soggetto ma soggettivazione
Non
intendo fare una ricostruzione storica del movimento
di autonomia, ma solo cercar di comprendere la sua specificità
storica attraverso una rivisitazione di concetti come
rifiuto del lavoro e composizione di classe. I giornalisti
usano la parola operaismo per definire un movimento
politico e filosofico che apparve in Italia durante
gli anni 60. A me non piace questo termine perché riduce
la complessità della realtà sociale al mero dato di
una centralità degli operai industriali nella dinamica
sociale della tarda modernità. La centralità della classe
operaia è stato un grande mito politico del ventesimo
secolo, ma il problema che ci dobbiamo porre è quello
dell'autonomia dello spazio sociale dal dominio capitalistico,
e quello delle differenti composizioni culturali, politiche,
immaginarie, che il lavoro sociale elabora. Perciò io
preferisco usare l'espressione composizionismo, per
definire questo movimento di pensiero.
Quel
che mi interessa enfatizzare nell'operazione filosofica
del cosiddetto operaismo italiano, è lo smontaggio della nozione
di soggetto che il marxismo ha ereditato dalla tradizione
hegeliana. Al posto del soggetto storico, il pensiero
composizionista cominica a pensare in termini di soggettiv/azione.
Il
concetto di classe sociale non ha una consistenza ontologica,
ma deve essere visto come un concetto vettoriale. La
classe sociale è proiezione di immaginazioni e progetti,
effetto di un'intenzione politica e di una sedimentazione
di culture.
Il
gruppo di pensatori che scrivevano su riviste come Classe
operaia o Potere operaio non usavano questo tipo di
linguaggio, non parlavano di investimenti sociali del
desiderio, e si esprimevano in una forma molto più leninista.
Ma il gesto filosofico da loro compiuto produsse un
mutamento importante nel panorama filosofico, spostando
l'attenzione dalla centralità dell'identità operaia
alla decentralizzazione di un processo di soggettivazione.
Félix Guattari, che incontrò l'operaismo dopo il 1977
e fu conosciuto dai pensatori dell'autonomia italiana
solo dopo il '77, ha sempre insistito sull'idea che
non si dovrebbe parlare di soggetto, ma piuttosto di
processo di soggettivazione.
Partendo
da queste osservazioni possiamo cercar di capire cosa
significa rifiuto del lavoro.
Questa
espressione non significa tanto l'ovvio fatto che gli
operai non amano essere sfruttati, ma significa qualcosa
di più: cioè che la ristrutturazione capitalista, il
mutamento tecnologico e la generale trasformazione delle
istituzioni sociali sono il prodotto di una azione quotidiana
di sottrazione dallo sfruttamento, di rifiuto dell'obbligo
di produrre plusvalore e di aumentare il valore del
capitale riducendo il valore della vita.
Come
ho detto non mi piace l'espressione "operaismo"
per l'implicita riduzione a un ristretto riferimento
sociale, e preferirei usare la parola composizionismo.
Il concetto di composizione sociale o composizione di
classe, largamente usato dai pensatori "operaisti"
sembra aver qualcosa a che fare piuttosto con la chimica
che con la storia sociale.
Mi
piace quest' idea che il luogo in cui si svolgono i
processi storici non è il solido roccioso territorio
storico di origine hegeliana, ma un ambiente chimico
nel quale sessualità, malattia e desiderio combattono
e si incontrano e si mescolano e continuamente mutano
il panorama. Se usiamo il concetto di composizione possiamo
capire meglio quel che è accaduto nell'Italia degli
anni 70, e possiamo meglio capire cosa vuol dire autonomia:
non la costituzione di un soggetto, non l'identificazione
degli esseri umani in una figura sociale fissata, ma
il cambiamento continuo delle relazioni sociali, la
identificazione e la disidentificazione sessuale, ed
il rifiuto del lavoro. Il rifiuto del lavoro è in effetti
generato dalla complessità degli investimenti sociali
del desiderio.
In
questo quadro autonomia significa che la vita sociale
non dipende solo dalla regolazione disciplinare imposta
dal potere economico, ma dipende anche dagli spostamenti,
scivolamenti e dissoluzioni che sono il processo di
auto-composizione della società vivente. Lotta, ritirata,
alienazione, sabotaggio, linee di fuga dal sistema di
dominio capitalista.
Questo
è il significato dell'espressione "rifiuto del
lavoro". Rifiuto del lavoro significa molto semplicemente:
"non voglio andare al lavoro perché preferisco
dormire". Ma questa pigrizia è la fonte dell'intelligenza,
della tecnologia e del progresso. Autonomia è l'autoregolazione
del corpo sociale, nella sua indipendenza e nelle sue
interazioni con la norma disciplinare.
Autonomia e deregulation
C'è
un altro aspetto dell'autonomia che è stato poco approfondito
finora. Il processo di autonomizzazione di lavoratori
dal loro ruolo ha provocato un terremoto sociale che
ha a sua volta scatenato la deregulation capitalistica.
La parola deregulation fa la sua comparsa sulla scena
ideologica alla fine degli anni Sessanta, e interpreta
uno spirito destrutturante che discende dal pensiero
libertario e antiautoritario dei decenni precedenti.
C'è tutta una tradizione del de-reglement che corre
lungo le filiere della cultura hippy libertaria californiana,
del pensiero autonomo italiano e dell'epistemologia
desiderante francese che predica l'autonomia della dinamica
sociale dal dominio statale e autoritario. Il liberismo
raccoglie la spinta di queste culture e la trasforma
in fanatismo dell'economia. L'autonomia sociale ha scatenato
le potenze del sapere e dell'immaginazione collettiva,
ma il liberismo traduce questa liberazione sul terreno
paranoico della competitività.
La
deregulation che apparve sulla scena mondiale nell'epoca
di Thatcher e di Reagan si può vedere come la risposta
capitalistica all'autonomizzazione dall'ordine disciplinare
del lavoro industriale. Gli operai chiedevano libertà
dalla regolazione capitalista, e poi il capitale ha
fatto la stessa cosa, ma in maniera rovesciata. La libertà
dalla regolazione di stato è diventata in effetti dispotismo
sul tessuto sociale, sulla vita quotidiana delle persone
concrete. I lavoratori chiedevano libertà dalla prigione
del lavoro a vita della fabbrica industriale, e la deregulation
rispose attraverso la flessibilizzazione del lavoro
e la frattalizzazione del lavoro.
Il
movimento di autonomia negli anni 70 mise in moto un
processo pericoloso, ma indispensabile. Un processo
che si sviluppò dal rifiuto sociale del dominio capitalista
alla vendetta capitalista che prese forma di deregulation,
libertà dell'impresa da ogni controllo statale, distruzione
delle protezioni sociali, riduzione ed esternalizzazione
della produzione, taglio della spesa sociale, detassazione,
e, finalmente, flessibilizzazione. Il movimento di autonomia
mise in moto effettivamente la destabilizzazione del
contesto sociale uscito da un secolo di pressioni sindacali
e di regolazione statale. Commettemmo noi forse un terribile
errore? Dovremmo pentirci delle azioni di dissenso e
di sabotaggio, di autonomia, di rifiuto del lavoro che
sembrano aver provocato la deregulation capitalista?
Assolutamente
no.
Il
movimento di autonomia effettivamente anticipò la tendenza,
ma il fenomeno della deregulation era iscritto nelle
linee di sviluppo del capitalismo postindustriale, ed
era naturalmente implicito nella ristrutturazione tecnologica
della globalizzazione produttiva.
C'è
una stretta relazione tra rifiuto del lavoro informatizzazione
delle fabbriche, riduzione degli organici ed esternalizzazione
delle commesse, e flessibilizzazione del ciclo complessivo
del lavoro. Ma
questa relazione è molto più complessa di quel che può
essere una catena di cause e di effetti. Il processo
di deregulation era iscritto nello sviluppo delle nuove
tecnologie che permettevano alle corporation capitaliste
di lanciare il processo di globalizzazione. Un processo
simile è accaduto anche nel campo dei media, nello stesso
periodo.
Pensate
alle radio libere italiane negli anni 70. In quegli
anni in Italia c'era un monopolio statale della telecomunicazione,
e l'emittenza privata era proibita. La sinistra politica,
particolarmente il PCI denunciava i mediattivisti di
Radio Alice perché li accusava di rompere il sistema
pubblico di comunicazione e di aprire così la strada
ai media privati. Dovremmo pensare che avesse ragione
la sinistra statalista che si opponeva alla proliferazione
comunicativa in nome della difesa del sistema pubblico?
Non credo proprio. Penso che la sinistra tradizionale
si sia sbagliata per varie ragioni. Prima di tutto perché
la fine del monopolio di stato era iscritto nelle evoluzioni
delle tecnologie di comunicazione, in secondo luogo
perché la libertà di espressione è meglio che la centralizzazione
statale dei media. In quel momento la sinistra rappresentava
una forza di conservazione statalista, in Italia come
nei paesi dell'est europeo. Essa rappresentava una cornice
culturale che non poteva sopravvivere nella transizione
postindustriale. La stessa cosa potremmo dire a proposito
della fine dell'impero sovietico.
Sappiamo
che oggi la popolazione russa sta peggio di come stava
venti anni fa, e la cosiddetta democratizzazione della
società russa ha portato soprattutto distruzione delle
protezioni, scatenamento di un incubo di competizione
aggressiva, violenza, corruzione e msieria esistenziale.
Ma
la dissoluzione del regime socialista era inevitabile,
perché quell'ordine bloccava la dinamica del desiderio
sociale, e perché impediva la innovazione culturale.
La dissoluzione dei regimi comunisti era iscritta nella
composizione sociale dell'intelligenza collettiva, nell'immaginario
creato dai nuovi media globali, e negli investimenti
collettivi di desiderio. Ecco perché l'intellettualità
democratica, e le forze culturali dissidenti presero
parte alla lotta contro il regime socialista, anche
se spesso sapevano che il capitalismo non sarebbe stato
un paradiso. Ora la deregulation sta devastando quella
che un tempo era la società sovietica, e si sperimenta
lo sfruttamento e la miseria e l'umiliazione a un punto
forse mai raggiunto, ma questa transizione era inevitabile
e in un certo senso è stato un mutamento progressivo.
Deregulation
non significa solo emancipazione dell'impresa privata
dalla regolazione di stato e riduzione della spesa pubblica
e delle protezioni sociali. Significa anche flessibilizzazione
del lavoro. La realtà della flessibilità del lavoro
è l'altra faccia di questo tipo di emancipazione dalla
disciplina capitalista. Non dovremmo sottovalutare il
collegamento tra il rifiuto del lavoro e la flessiblizzazione
che lo ha seguito.
Una
delle idee forti del movimento di autonomia era "precario
è bello". La precarietà del lavoro è una forma
di autonomia dal lavoro regolare che dura per tutta
la vita. Negli anni '70 era comune lavorare per qualche
mese, poi licenziarsi per andare a farsi un viaggio,
tornare e riprendere il lavoro per pochi mesi e così
via. In
condizioni di quasi pieno impiego ed in presenza di
una diffusa cultura egualitaria, non competitiva, non
consumista, uno stile di vita di questo genere è possibile,
e fa bene allo spirito e al corpo.
L'offensiva neoliberista degli anni ottanta puntava
a rovesciare il rapporto di forza.
Deregulation
e flessibilizzazione del lavoro sono stati l'effetto
ed il rovescio dell'autonomia operaia. Dobbiamo capirlo
non solo per ragioni storiche. Se vogliamo capire cosa
dobbiamo fare oggi, nell'epoca della piena flessibilità
del lavoro umano che però è anche fase della crisi del
neoliberismo, dobbiamo capire come poté verificarsi
la occupazione del campo del desiderio sociale in quel
passaggio dagli anni settanta agli anni ottanta da parte
di un immaginario economicista e competitivo.
Negli ultimi decenni l'informatizzazione del macchinario ha giocato un ruolo cruciale nella flessibilizzazione del lavoro insieme alla intellettualizzazione e immaterializzazione dei principali cicli di produzione. L'introduzione delle nuove tecnologie elettroniche e l'informatizzazione del ciclo produttivo ha aperto la strada alla creazione di una rete globale di infoproduzione, deterritorializzata, delocalizzata e s-personalizzata. Soggetto del processo lavorativo sociale è divenuto sempre più la rete globale di info-produzione, e il tessuto umano delle persone che lo compongono si è frammentato fino a dissolversi. Non ci sono più esseri umani che lavorano, ma frammenti temporali assoggettati al processo di valorizzaizone, atomi di tempo ricombinati nel ciclo produttivo globale. I lavoratori industriali avevano rifiutato il loro ruolo nella fabbrica, e in questo modo avevano guadagnato libertà e autonomia dal dominio capitalista, dal controllo sul loro tempo di vita. Ma questa situazione ha condotto i capitalisti a investire in tecnologie che risparmiano lavoro, ed a cambiare la composizione tecnica del processo lavorativo, per poter espellere gli operai industriali e le loro forme di organizzazione autonoma, per poter creare una nuova organizzazione del lavoro che potesse essere più flessibile.
Ascesa e caduta dell'alleanza di lavoro cognitivo e capitale ricombinante
Intellettualizzazione
e immaterializzazione del lavoro sono una faccia del
mutamento delle forme di produzione sociale. L'altra
faccia è la globalizzazione planetaria. Immaterialità
e globalizzazione sono due facce complementari.
La globalizzazione è un processo che implica
aspetti di pesante materialità, perché il lavoro industriale
non sparisce nell'epoca postindustriale, ma emigra verso
le zone geografiche in cui è possibile pagare bassi
salari, e in cui la legislazione non protegge il lavoro
e favorisce la libera impresa anche a scapito dell'ambiente
e della società. La prospettiva dell'estensione planetaria
del processo di produzione industriale era stato previsto
da Mario Tronti in un articolo uscito nell'ultimo numero
della rivista Classe operaia, nel 1967. Tronti aveva
scritto: il fenomeno più importante dei prossimi decenni
fino alla fine del secolo ventesimo sarà lo sviluppo
della classe operaia su scala planetaria globale. Questa
intuizione non era fondata sull'analisi del processo
di produzione capitalistico, ma era basato sulla comprensione
delle trasformazioni nella composizione del lavoro.
La globalizzazione e l'informatizzazione potevano essere
previsti come un effetto del rifiuto del lavoro nei
paesi industriali dell'occidente.
Durante
gli ultimi due decenni del ventesimo secolo abbiamo
assistito a una sorta di alleanza tra il capitale ricombinante
e il lavoro cognitivo. Chiamo ricombinante il capitale
che non è strettamente connesso a una particolare applicazione
industriale, ma è rapidamente trasferibile da un posto
all'altro, da un'applicazione industriale all'altra,
da un settore di attività economica a un altro. Si può
definire ricombinante il capitale finanziario che prende
un ruolo centrale nella politica e nella cultura degli
anni ‘90. L'alleanza di lavoro cognitivo e capitale
finanziario ha prodotto effetti culturali importanti,
come la identificazione ideologica del lavoro e dell'impresa.
I lavoratori sono stati spinti a vedersi come auto-imprenditori,
e in questa visione c'è una parte di verità, nel periodo
di fioritura delle dotcom, quando il lavoratore cognitivo
poteva creare la sua impresa investendo la sua forza
intellettuale (un'idea, un progetto, una formula) come
un bene valutabile in termini finanziari.
Era
il periodo che Geert Lovink, nel suo importante libro
"Dark Fiber" ha definito dotcommania. Cosa
è stata la dotcommania?
La partecipazione di massa al ciclo dell'investimento
finanziario negli anni '90 mise in moto un processo
di auto-organizzazione dei produttori cognitivi.
I lavoratori cognitivi investivano la loro esperienza,
sapere e creatività, e trovarono nel mercato azionario
i mezzi per creare imprese. Per parecchi la forma impresa
divenne il punto in cui si incontrarono il capitale
finanziario e il lavoro cognitivo ad alto potenziale
produttivo.
L'ideologia
libertaria e liberale che dominava la cibercultura (soprattutto
americana) negli anni 90 idealizzava il mercato presentandolo
come un ambiente puro. In questo ambiente, naturale
come la lotta per la sopravvivenza del più forte che
rende possibile l'evoluzione, il lavoro trova i mezzi
necessari per valorizzarsi e per divenire impresa. Una
volta lasciato alla sua dinamica, il sistema economico
di rete era destinato a ottimizzare i profitti economici
per tutti, proprietari e lavoratori, anche perché la
distinzione tra proprietari e lavoratori diveniva sempre
più impercettibile quando si entra nel circuito produttivo
virtuale.
Questo
modello, teorizzato da autori come Kevin Kelly e trasformato
dalla rivista Wired in una sorta di Weltanschauung digital-liberista,
arrogante e trionfalista, ha fatto bancarotta all'inizio
del nuovo millennio, insieme alla new economy e insieme
a una larga parte dell'esercito di imprenditori cognitivi
che avevano abitato il mondo delle dotcom. La ragione
della bancarotta sta nel fatto che il modello di un
mercato perfettamente libero è una menzogna teorica
e pratica. Quel che il neoliberismo ha rafforzato nel
lungo periodo non è il libero mercato, ma il monopolio.
Nella
seconda metà degli anni '90 si è sviluppata una vera
e propria lotta di classe all'interno del circuito produttivo
delle alte tecnologie. Il divenire della rete è stato
segnato da questa lotta, di cui oggi non è chiaro l'esito.
Certamente l'ideologia di un mercato libero e naturale
si è rivelata un inganno. L'idea che il mercato funzioni
come un ambiente puro di confronto tra idee progetti,
qualità e utilità dei servizi è stata spazzata via dall'amara
verità della guerra che i monopoli hanno condotto contro
la moltitudine dei lavoratori auto-imprenditori e contro
la patetica massa dei micro-traders. La lotta per la
sopravvivenza non è stata vinta dal migliore e dal più
fortunato, ma da quello che ha tirato fuori il cannone:
il cannone della violenza, della rapina, del furto sistematico,
della violazione di ogni norma etica e legale. L'alleanza
Bush – Gates ha sanzionato la liquidazione del mercato,
e a quel punto la fase della lotta interna della classe
virtuale è finita. Una parte della classe virtuale è
entrata nel complesso militar-industriale, un'altra
parte (la larga maggioranza) è stata espulsa dall'impresa
e spinta ai margini di una esplicita proletarizzazione.
Sul piano culturale stanno emergendo le condizioni per
la formazione di una coscienza sociale del cognitariato
e questo potrebbe essere il fenomeno più importante
degli anni a venire, la sola chiave che possa offrire
soluzioni al disastro.
Le dotcom sono state il laboratorio di sperimentazione di un modello produttivo e di un mercato. Alla fine il mercato è stato conquistato e soffocato dalle corporation monopolistiche, e l'esercito degli auto-imprenditori e dei microcapitalisti di ventura è stato rapinato e dissolto. Così una nuova fase è cominciata: i gruppi che sono divenuti predominanti nel ciclo della net-economy forgiano un'alleanza con il gruppo dominante della old-economy (il clan mafioso di Bush o di Berlusconi, l'industria militare o quella del petrolio ecc.), e in questa fase si manifesta un blocco del processo di globalizzazione produttiva. Il neoliberismo ha prodotto la sua negazione e coloro che erano i suoi più entusiasti sostenitori sono diventate le vittime marginalizzate.
Con il dotcom-crash il lavoro cognitivo si è separato dal capitale. Gli artigiani digitali, coloro che negli anni novanta si sono sentiti imprenditori del proprio lavoro, si accorgeranno poco alla volta di essere stati raggirati, derubati, espropriati, e questo creerà le condizioni di una coscienza di tipo nuovo dei lavoratori cognitivi. Questi si renderanno conto che pur possedendo tutta la potenza produttiva, sono stati espropriati dei suoi frutti da una minoranza di speculatori ignoranti ma abili a maneggiare gli aspetti legali e finanziari del processo produttivo. Il ceto improduttivo della classe virtuale, gli avvocati e i ragionieri, si appropriano del plusvalore cognitivo prodotto dai fisici dagli informatici, dai chimici dagli scrittori e dai mediaoperatori. Ma questi possono separarsi dal castello giuridico e finanziario del semiocapitalismo, e costruire un rapporto diretto con la società, con gli utenti: E allora inizierà forse il processo di autorganizzazione autonoma del lavoro cognitivo. Un processo che del resto è già in atto come dimostrano le esperienze del mediattivismo, e la creazione di reti di solidarietà per il lavoro migrante.
Era per noi necessario attraversare il purgatorio delle dotcom, l'illusione di una fusione tra lavoro e impresa capitalista, e anche l'inferno della recessione e della guerra infinita, per poter veder emergere in problema in termini chiari. Su un piano il sistema inutile e ossessivo dell'accumulazione finanziaria e la follia della privatizzazione della conoscenza pubblica, l'eredità della vecchia economia industriale. Dall'altra parte il lavoro produttivo sempre più iscritto nelle funzioni cognitive della società. Il lavoro cognitivo comincia a vedersi come cognitariato, e comincia a costruire istituzioni di conoscenza, di creazione, di cura, di invenzione e di educazione che sono autonome dal capitale.
Frattalizzazione psicopatia suicidio
Nella
net-economy la flessibilità si è evoluta in una forma
di frattalizzazione del lavoro. Frattalizzazione significa
frammentazione del tempo di attività. Il lavoratore
non esiste più come persona. E' soltanto un produttore
intercambiabile di micro-frammenti di semiosi ricombinante
che entra nel flusso continuo della rete. Il capitale
non paga più la disponibilità del lavoratore ad essere
sfruttato per un lungo periodo di tempo, non paga più
un salario che copra l'intero campo dei bisogni economici
di una persona che lavora. Il lavoratore (macchina che
possiede un cervello che può essere usato per frammenti
di tempo) viene pagato per la sua prestazione puntuale,
occasionale, temporanea. Il tempo di lavoro è frattalizzato
e cellularizzato. Le cellule di tempo sono in vendita
sulla rete, e le aziende possono comprarne tanto quanto
ne vogliono senza impegnarsi in nessun modo nella protezione
sociale del lavoratore. Il lavoro cognitivo è un oceano
di microscopici
frammenti di tempo, e la cellularizzazione è
la capacità di ricombinare frammenti di tempo nella
cornice di un singolo semio-prodotto. Il telefono cellulare
può essere visto come la catena di montaggio del lavoro
cognitivo.
Questo
è l'effetto della flessiblizzazione e della frattalizzazione
del lavoro: quel che era autonomia e potere politico
del lavoro è divenuto totale dipendenza del lavoro cognitivo
dall'organizzazione capitalistica della rete globale.
Questo è il nucleo centrale della creazione del semiocapitalismo.
Quel che era rifiuto del lavoro è divenuto dipendenza
completa delle emozioni e del pensiero dal flusso di
informazione. E l'effetto di questo è una specie di
crollo nervoso che colpisce la mente globale e provoca
quel che abbiamo preso l'abitudine di chiamare dotcomcrash.
La crisi del capitalismo di massa finanziario si può
vedere come un effetto del collasso dell'investimento
economico del desiderio sociale. Uso la parola collasso
in un senso che non è metaforico ma piuttosto una descrizione
clinica di quel che sta accadendo nella mente occidentale.
La parola collasso esprime un crollo patologico vero
e proprio dell'organismo psico-sociale. Quel che abbiamo
visto nel periodo seguito ai primi segni di crollo economico,
nei primi mesi del nuovo secolo è un fenomeno psicopatico,
è il collasso della mente globale. Vedo la depressione
economica attuale come un effetto collaterale di una
depressione psichica. L'intenso e prolungato investimento
lavorativo del desiderio e delle energie mentali e libidinali
ha prodotto l'ambiente psichico ideale per un collasso
che ora si sta manifestando nel campo dell'economia
con la recessione e il crollo della domanda, nel campo
politico in forma di aggressività militare, e nel campo
culturale nella forma di una tendenza suicidaria di
massa.
L'economia
dell'attenzione è divenuta un soggetto importante negli
ultimi anni. I lavoratori virtuali hanno sempre meno
tempo di attenzione disponibile, perché sono coinvolti
in un numero crescente di compiti mentali che occupano
ogni spazio del loro tempo di attenzione, e non hanno
più il tempo da dedicare alla loro vita, all'amore,
alla tenerezza, all'affetto. Prendono Viagra perché
non hanno il tempo per i preliminari del sesso. La cellularizzazione
ha portato una specie di occupazione permanente del
tempo di vita. L'effetto è una psicopatologizzazione
della relazione sociale. I sintomi sono evidenti: milioni
di scatole di psicofarmaci si vendono nelle farmacie,
l'epidemia di disturbi dell'attenzione si diffonde tra
i bambini e gli adolescenti, la diffusione di farmaci
come il Ritalin nelle scuole diviene normale, e un'epidemia
di panico sembra diffondersi.
Lo
scenario dei primi anni del nuovo millennio sembra dominato
da una vera e propria ondata di comportamento psicopatico.
Il fenomeno suicidario si diffonde molto al di là dei
confini del fanatismo islamico. Dall'11 settembre 2001
il suicidio è divenuto l'atto politico cruciale sulla
scena politica globale. Il suicidio aggressivo non deve
essere visto solo come un fenomeno di disperazione e
di aggressione, ma va visto come una dichiarazione della
fine. L'onda suicidaria sembra suggerire che il genere
umano è fuori tempo massimo, e la disperazione è divenuta
il modo prevalente di pensiero sul futuro.
E allora? Non ho risposte da dare. Quel che possiamo fare è solo quello che stiamo effettivamente già facendo: L'autorganizzazione del lavoro cognitivo è la sola via per andare oltre il presente psicopatico. Non credo che il mondo possa essere governato dalla ragione. L'utopia dell'Illuminismo è fallita. Ma penso che la disseminazione di conoscenza autorganizzata possa creare la cornice sociale di un numero infinito di mondi autonomi. Il processo di creazione della rete è così complesso che non può essere governato dalla ragione umana. La mente globale è troppo complessa per essere conosciuta e padroneggiata da menti localizzate subtotali. Non possiamo conoscere, non possiamo controllare, non possiamo governare l'intera forza della mente globale.
Ma possiamo governare il processo singolare di produzione di un mondo singolare di socialità.